The GrandMasters

Si parla da tanto tempo di questo film. D’altronde, Wong Kar-wai è un po’ come Kubrick: anni per preparare un film (a causa di un maniacale perfezionismo nella cura di ogni dettaglio), totale riservatezza sui contenuti e sul cast, mai un’anticipazione o una news di troppo.

All’epoca dei primi rumors sul ritorno in patria del regista hongkonghese, dopo il non esaltante riscontro americano di My Blueberry Nights (del 2007), la figura di Ip Man era ancora “vergine” sugli schermi cinematografici; lo si era tutt’al più intravisto brevemente nei tanti film & filmacci dedicati a Bruce Lee (il più famoso fra i suoi allievi). Giusto il tempo di dare le prime notizie che i film sono spuntati come funghi: prima l’accoppiata Donnie Yen-Wilson Yip con Ip Man e Ip Man 2, poi Herman Yau con The Legend is born: Ip Man.

Adesso, finalmente, tocca a Wong Kar-wai. Con un teaser totalmente grafico e con la suggestiva locandina/poster di The GrandMasters, in cui s’intravede l’immagine  di Tony Leung chiu-wai in azione.

Inutile dire che l’attesa ora diventa spasmodica!

Inquadrature simili #1

Il cinema ha ormai più di cent’anni. Migliaia di film sono stati realizzati unendo miliardi di inquadrature. E’ ovvio che alcune di queste talvolta si ripetano. E nella nostra mente si crea una specie di déjà vu.

A volte le “similitudini” sono casuali, a volte invece sono dei veri e propri omaggi verso un genere, un autore, un modo di fare cinema che ha influenzato un certo regista piuttosto che un altro.

In attesa di scovarne altri, eccovi un primo esempio:


The Sword of Doom (Okamoto Kihachi, Giappone 1966)


Grosso guaio a Chinatown (J.Carpenter, USA 1986)

 

su_Moon


E’ davvero possibile realizzare un film intenso, coinvolgente e a tratti persino inquietante avendo a disposizione un unico protagonista ed un’unica location?

La risposta è sì. Se poi questo “miracolo” viene realizzato da un regista al suo esordio, la cosa ha dell’incredibile. Eppure MOON, primo film di Duncan Jones, è qui a dimostrarlo.

Lo spunto di partenza è presto detto. Un astronauta vive ormai da quasi tre anni all’interno di una stazione spaziale collocata sulla Luna. Il suo lavoro è quello di controllare che le operazioni di estrazione di energia (necessaria per sfamare le esigenze planetarie terrestri) non abbiano intoppi e che tutto proceda per il meglio. A coadiuvare Sam Bell (interpretato da un  Sam Rockwell perfettamente e dolorosamente in parte, il quale pare sia stato l’ispiratore del protagonista fin già dalla fase di pre-produzione), unica presenza umana in territorio extraterrestre, c’è un robot di nome GERTY, capace di “parlare” e di trasmettere alcune semplici emozioni per mezzo di uno schermino nel quale appare il classico smile di colore giallo: unico stacco colorato rispetto alla grigia routine nel quale è stato catapultato ormai da troppo tempo.

Sam Bell è fisicamente e psicologicamente provato ma ha gli occhi lucidi perché, dopo anni di ricordi sempre più offuscati ma virtualmente rinvigoriti da video-messaggi trasmessi in differita dalla giovane moglie e dalla figlioletta, è sul punto di tornare a casa. La sua missione è quasi conclusa. Due settimane… solo due settimane e poi potrà tornare finalmente con i piedi sulla Terra e riabbracciare i suoi cari.

Questo l’incipit. Oltre non posso spingermi per non rivelare l’interessante e sconvolgente sviluppo della trama. Ciò che mi preme invece rimarcare è che il regista è stato in grado di assimilare e successivamente di trasporre per immagini la migliore fantascienza, quella cioè che non parla di combattimenti fra alieni o di battaglie per la Terra fini a sé stessi, ma quella che porta le inquietudini umane in un contesto non-umano conducendo il protagonista (e quindi lo spettatore) sulla strada impervia del confronto con temi universali, obbligandolo ad aprirsi all’imprevisto privo di qualsiasi àncora di salvataggio.

E se questo non è un gran risultato…

  • Nota di merito anche alle musiche, composte da Clint Mansell (collaboratore fisso di Aronofsky), e alla scelta di non delegare alle tecnologie digitali/3D di ultima generazione la creazione dell’immaginario lunare, realizzato invece (utilizzando i classici modellini) da specialisti e designer che avevano già portato sullo schermo opere di fantascienza intelligente quali Alien, 2002: la seconda odissea e Atmosfera Zero.

Winter’s Bone

Ieri si sono sapute le nomination agli Oscar. Più o meno tutto già noto, senza grosse sorprese tranne forse l’esclusione di Christopher  Nolan per il premio alla migliore regia (una candidatura se la meritava).

Un outsider però c’è: Winter’s Bone, piccolo film americano indipendente diretto da Debra Granik ed interpretato da una giovane e già promettente Jennifer Lawrence, ha ricevuto ben 4 importanti candidature (film, attrice protagonista, attore non protagonista e sceneggiatura non originale).

Non ho ancora avuto modo di vederlo ma, a pelle, faccio il tifo per loro.

Ecco il trailer:

su_Les Diables

Recupero (aggiornandola) questa mini-recensione scritta tempo addietro, quando mi occupavo di un altro blog, perché il film è immeritatamente poco conosciuto ed invece merita attenzione. Venne proposto all’interno di una rassegna dedicata al tema inflazionato della “giovinezza” e scelto praticamente a scatola chiusa. Insieme ad alcuni amici avevo letto questa recensione e ne fummo tutti entusiasti. Col senno di poi devo dire che abbiamo fatto la scelta giusta.

Il fim parte subito in quarta, con i due ragazzini protagonisti in fuga dopo aver rubato del cibo, e ci catapulta immediatamente nel loro mondo… senza filtri, senza introduzioni esplicative… lasciando quindi lo spettatore senza punti di riferimento. Scopriamo poi che Joseph e Chloé (questi i loro nomi) sono fratello e sorella abbandonati dalla nascita e costretti a vivere contando solo sulle loro forze alimentate dal fortissimo legame che li unisce, dovuto anche alla malattia di Chloé (autismo). Da qui in avanti inizia un susseguirsi quasi senza sosta di fughe (dalla scuola, dal centro di riabilitazione, dal carcere minorile, dalla propria madre, dalle convenzioni e dalle regole della vita adulta) intramezzate da attimi di serenità (quasi surreali nella loro estraneità col mondo esterno) vissuti con estrema partecipazione e coinvolgimento emotivo.

Al di là di tutto, ciò che salta subito agli occhi è la mostruosa bravura dei due piccoli attori: Vincent Rottiers e Adele Haenel, entrambi alla loro prima esperienza cinematografica, tratteggiano con incredibile realismo i rispettivi ruoli. Il primo capace di destreggiarsi abilmente sia quando indossa la “maschera” del duro, di quello che non ha paura di niente e di nessuno, di quello che se la sa cavare da solo in qualsiasi situazione, sia quando se la toglie e recita la parte del fratello sensibile e protettivo; la seconda eccezionale nel reggere per l’intero film (che ricordiamo, non si stacca mai dai due protagonisti, nemmeno per un secondo) il difficile ruolo di ragazzina autistica, non trasformandolo mai in una macchietta ma, al contrario, riuscendo a trasmettere forti emozioni attraverso le sole espressioni del viso e qualche gesto ripetuto all’infinito. Un applauso a loro e, di riflesso, anche al regista Christophe Ruggia che è stato capace di indicare la giusta strada da percorrere ai giovanissimi attori per rendere le loro interpretazioni tanto intense. Se a questo aggiungiamo una fotografia capace di esaltare le ambientazioni naturalistiche che il paesaggio rurale francese offre, un’efficace colonna sonora (il cui incalzante tema principale accompagna le scene più forti e ricche di pathos) e un montaggio che alterna sapientemente scene di vita quotidiana dura e cruda a delicati momenti poetici di grande (e spesso audace) intimità, otteniamo un’opera degna di essere (ri)scoperta.

Qui potete vedere il trailer (purtroppo in bassa risoluzione):

 

 

la parola a_John Huston

Secondo me il film perfetto è come se si svolgesse dietro i nostri occhi e fosse proiettato dagli occhi stessi, così che vedremmo quello che abbiamo voglia di vedere. Il cinema è come il pensiero. Di tutte le arti è quella che gli si avvicina di più. Guarda quella lampada dall’altra parte della stanza. Adesso guarda di nuovo me. Guarda ancora la lampada. Adesso torna a guardare me. Hai visto cosa hai fatto? Hai battuto gli occhi. Quelli sono stacchi. Dopo il primo sguardo, lo sai che non c’è ragione di fare una panoramica continua da me alla lampada perché sai già cosa c’è in mezzo. La tua mente taglia la scena. Prima guardi la lampada. Stacco. Poi guardi me.

[John Huston – regista]

su_Ame Agaru (After the rain)

Era parecchio tempo che volevo vedere questo film e per vari motivi.

La sceneggiatura fu scritta da Akira Kurosawa e fu uno dei lavori incompiuti del grande maestro giapponese. E questo è un motivo. Il secondo riguarda il genere a cui appartiene, o per meglio dire il sottogenere. Sì perché, nonostante si tratti chiaramente di un chanbara (film di “cappa e spada” giapponesi), AME AGARU non punta tutto sull’azione concitata e sulla violenza mostrata, quanto sulla vita ordinaria di un samurai (in questo caso un ronin, cioè un samurai senza padrone che vagabondeggia nella speranza di trovare un lavoro) alle prese con i problemi della gente e dell’epoca non facile in cui vive.

Un sottogenere  che cambia prospettiva e punta lo sguardo sulle vicende umane del protagonista… idea questa che ritroveremo successivamente nella trilogia diretta da Yamada Yoji (The Twilight Samurai, The Hidden Blade, Love and Honor).

La narrazione quindi si concentra sul ronin, una persona vigorosa ma allo stesso tempo vulnerabile, una persona dall’animo gentile ma capace, una volta estratta la spada, di ricorrere alle proprie conoscenze marziali senza fare sconti a nessuno.  In una parola, un uomo. Ed è il suo ritratto che il regista Takashi Koizumi (per quasi 30 anni assistente di Kurosawa e qui al suo esordio, un anno dopo la morte del suo maestro) tratteggia alla perfezione, complice l’interpretazione esemplare di Akira Terao che caratterizza il suo personaggio donandogli una leggerezza d’animo che traspare da ogni sua espressione del viso.

Lo stesso Terao, già attore in Ran e Sogni, diventerà poi un collaboratore fisso di Koizumi partecipando come protagonista ai film successivi del regista (fra cui gli ottimi Letter from the MountainThe Professor and his Beloved Equation, entrambi inediti in Italia).

Consigliatissimo.

Trailer_Confessions

Fra i nove film papabili per entrare nella cinquina che continuerà il cammino verso l’Oscar per il miglior film straniero, vi è anche un film giapponese: Kokuhaku/Confessions…  il cui trailer anticipa bene lo stile e le ossessioni del regista Nakashima Tetsuya (già autore di Kamikaze Girls e Memories of Matsuko). Dateci un’occhiata perché ne vale la pena: