MyFavMovies_i Viaggiosi

Ok, non è un genere. Diciamo che si tratta di una categoria di film capace di inglobare molti generi, una categoria che vanta titoli di tutto rispetto e che, il più delle volte, si basa su una semplice e sacrosanta regola: la parte più importante di un viaggio non è la meta, bensì il viaggio stesso.

C’è inoltre da dire che la “tematica del viaggio” è sempre stata molto amata dal cinema, sfruttatissima in ogni occasione e declinata in numerose versioni e varianti. Citerò qui alcuni film a cui sono particolarmente affezionato ma ce ne sarebbero molti altri da menzionare: The Tracker, Central do Brasil, Due per la strada (già inserito nella lista degli “Amorosi“), per non parlare di moltissimi western (ultimo dei quali proprio “Il Grinta” dei fratelli Coen).

L’ESTATE DI KIKUJIRO: uno dei Kitano che preferisco, poetico ma mai sdolcinato, assurdo quanto basta, giapponese nell’essenza ma appetibile anche ad un pubblico straniero (molti altri film del “nostro” non lo sono per nulla). Beat Takeshi lascia (momentaneamente) il mondo della yakuza per dedicarsi ad un rapporto tanto bizzarro quanto imprevedibilmente intenso. L’incredibile mix di gag comiche, vita quotidiana, incontri assurdi, pochi dialoghi e situazioni che passano dall’imbarazzante al profondamente intenso sembrano cozzare e invece riescono a tenerti incollato allo schermo fino alla fine di questo strano viaggio. “Signore….signore… ma lei come si chiama? Kikujiro, scemo!” Musiche indimenticabili di Hisaishi Joe.

VERSO IL SOLE: l’ultimo film di Cimino (che ormai non torna dietro la mdp da ben 15 anni) è un road-movie con rapimento. Il medico Woody Harrelson viene infatti costretto a fare da taxista ad un giovane navajo malato terminale di cancro appena fuggito dal carcere minorile. Quest’ultimo crede infatti che se bagnato dalle acque di un misterioso lago sulle montagne sacre riuscirà a guarire. Un film denso di emozioni forti, di tensioni e di sentimenti centellinati fino all’esplosione finale. Un percorso spirituale e al contempo un’amicizia nata al di là di ogni contrasto di razza, pensiero o religione. Simpatica comparsata di Anne Bancroft nel ruolo della hippie stagionata che da un passaggio ai nostri col suo furgoncino. Un gran film, verrebbe da dire “di quelli che non ne fanno più”.

KAMIKAZE TAXI: cercando di bypassare l’orrendo poster del film qui a fianco (l’unico trovato in rete, sorry), Kamikaze Taxi è un atipico ganster movie giapponese con viaggio itinerante e mix di culture che si intersecano in un’escalation di eventi che porterà i protagonisti (un taxista nippo-peruviano, interpretato magistralmente da Yakusho Koji, e un giovane ragazzo inseguito dalla yakuza) a cambiare inesorabilmente le sorti della loro vita. Un gioiellino del cinema nipponico poco conosciuto, capace di impennate di violenza ma anche di attimi di serena quotidianità. Il tutto diretto con stile quasi documentaristico da Harada Masato (abituato solitamente a cimentarsi con legal-thriller e film politici).

IL SORPASSO: Capolavoro nostrano firmato Dino Risi, è uno di quei film italiani che guardi e poi dici: cosa abbiamo fatto di male per essere ridotti nel 2011 ad elogiare Checco Zalone o a pubblicizzare l’ennesimo cinepanettone, mentre cinquant’anni fa autori con la A maiuscola giravano film come questi? Il cinema italiano poteva davvero diventare uno dei migliori al mondo. All’epoca lo era veramente. Un Gassman in forma smagliante che giganteggia da par suo, un Trintignant che recita volutamente sotto le righe che funziona da perfetto contraltare all’esuberanza di Gassman, Catherine Spaak e molti altri caratteristi dell’epoca d’oro. Il vero capostipite del film on the road, amato forse più all’estero che non da noi. Un manifesto dell’Italia del boom economico che parte e si sviluppa in maniera del tutto scanzonata e finisce in maniera inaspettatamente tragica. Un filmone da vedere e rivedere.

L’INIZIO DEL CAMMINO: Secondo film dell’ex operatore di ripresa Nicolas Roeg, L’inizio del cammino (Walkabout) è un film atipico, affascinante, morboso. Dopo la morte del padre, due bambini bianchi si ritrovano a percorrere il deserto australiano per ritornare alla civiltà, guidati in questa impervia camminata da un giovane aborigeno che conosce il territorio. Regia virtuosa, pochi personaggi, pochi dialoghi, montaggio sperimentale come si poteva fare solo negli anni ’70 e un erotismo suadente che traspare dagli occhi e dai gesti dei giovanissimi interpreti (lei è Jenny Agutter, che ritroveremo poi, cresciuta, in Un lupo mannaro americano a Londra di John Landis). Un viaggio che rappresenta forse meglio di qualunque altro film la crescita da adolescenti a uomini e donne con le proprie pulsioni e le proprie debolezze. Da rivalutare.

THELMA & LOUISE: ci sono affezionato a questo film, forse un po’ retorico e troppo “hollywood style”. Però è girato bene (d’altronde stiamo parlando di Ridley Scott), con due attrici meravigliose e una comparsata che lascerà il segno nell’immaginario femminile di quei primi anni ’90 (sto parlando ovviamente di Brad Pitt). E un finale forse un po’ furbetto ma che non si dimentica facilmente. Ci sono affezionato, dicevo, perché è uno dei primi film che ho visto consapevolmente al cinema (per ben due volte, una con un amico e una con la scuola) e indirettamente è stato uno dei motivi che mi hanno dato il la per conoscere meglio questo incredibile universo parallelo fatto di storie inventate che ci piacciono tanto.

DUEL: road movie atipico (un automobilista si trova a dover fronteggiare un camion che, inspiegabilmente, ce l’ha con lui) ma non per questo meno interessante. Con Duel, tratto da un racconto di Richard Matheson e nato inizialmente per la TV, Steven Spielberg realizza il suo esordio e la sua carriera parte nel migliore dei modi. Tutto giocato su unico personaggio, ben interpretato da Dennis Weaver, il giovane regista riesce a mantenere alta la tensione e a gestire il tempo in maniera impressionante, grazie ad una sceneggiatura creata su misura dallo stesso Matheson. Un thriller dove il cattivo non si vede mai e il buono si vede anche troppo (si sentono anche i suoi pensieri, da lui non ci stacchiamo mai… in un certo senso noi siamo lui e viceversa), un horror in pieno giorno, un mistery giocato tutto su una strada americana. Ed era dai tempi di Intrigo internazionale che non si riusciva ad instillare paura, inquietudine e mistero nel bel mezzo di una solare giornata d’estate.

ReceMix #1

Visto che il tempo è tiranno, capita sempre più spesso di vedere alcuni film anche interessanti ma non avere il tempo per poterne parlare in maniera approfondita… dopo alcuni giorni i ricordi si affievoliscono e il rischio è non parlarne affatto.

Corro ai ripari con questa nuova sezione: le recemix, ovvero brevi commenti (sì, ho scoperto l’acqua calda…) su film visti di recente prima che scompaiano all’orizzonte della memoria cinefila del qui presente curiositizen.

Cominciamo con:

KOKUHAKU (Confessions) – dopo averne sentite di cotte e di crude, ho trovato finalmente due ore per poter vedere questo ultimo lavoro di Nakashima. Che dire, sono d’accordo sia con chi lo stronca che con chi ne parla bene. Mi spiego. La narrazione è subordinata ad una stratificazione visiva di enorme impatto… praticamente il regista utilizza quasi ogni espediente tecnico per rendere accattivante una storia che trova la propria risoluzione dopo nemmeno mezz’ora. Ed è una mezz’ora che non lascia indifferenti. Nakashima sa lavorare sulle immagini, sa lavorare sugli attori, sa lavorare sul suono. E’ in grado di giocare con lo spettatore e di dare al suo pubblico ciò che vuole. Dal 31’esimo minuto in poi prova ad approfondire ciò che viene dopo la scoperta di “chihacommessocosa” attraverso la materializzazione del senso di colpa e delle conseguenze alle azioni perpetuate dai colpevoli. Non verrà risparmiato nessuno (nemmeno gli spettatori).

  • PRO: le inquadrature, i movimenti di macchina, le musiche, Takako Matsu, una certa cattiveria diffusa, l’atmosfera malata;
  • CONTRO: una lentezza a volte esasperata e non giustificata, una recitazione troppo sopra le righe, le musiche, un senso di finzione dovuto ad un impianto palesemente teatrale.

THANK YOU FOR SMOKING – il film d’esordio di Jason Reitman (figlio di Ivan “Ghostbusters” Reitman) fa subito ben sperare per la carriera del giovane regista il quale, effettivamente, riuscirà a sfornare un altro gran bel colpo (Juno) ed un film riuscito a metà ma comunque piacevole e divertente (Up in the air). Qui c’è Aaron Eckart (indimenticabile protagonista de “Nella società degli uomini” di Neil LaBute) che gigioneggia nel ruolo di un lobbista del tabacco che, grazie alla sua parlantina e al viso da bravo ragazzo, riesce dove nessuno si sognerebbe mai di scommettere: pubblicizzare il fumo. La regia di Reitman è dinamica, frizzante, piena di brio. La sua capacità (e lo si noterà anche nei lavori futuri) è quella di rendere umano (e quindi, in parte, ridicolo) anche il tema più spinoso: che sia la lotta a favore del fumo oppure una minorenne incinta che vuole partorire ma non tenere il proprio figlio. Qui, ben coadiuvato da un cast in ottima forma, crea un gioiellino dell’intrattenimento intelligente.

  • PRO: i bellissimi titoli di testa (altro leit-motiv dell’ancor pur breve carriera di Reitman), Aaron Eckart, le musiche, i dialoghi cinici quanto bastano;
  • CONTRO: un certo calo d’attenzione nella parte centrale del film, alcuni personaggi troppo stereotipati.

tecnica_Sguardo in camera

Vi sono convenzioni che ormai sono diventate regole ferree. E solo pochi autori sono in grado di bypassarle con stile ed eleganza narrativa. Una di queste è senza dubbio la regola dello “sguardo in macchina” o “sguardo in camera” (eye contactcamera look). Insomma, quando uno, due o più attori guardano dritto verso la macchina da presa.

[esiste anche un blog, o meglio un tlog, che ne raggruppa decine di questi “sguardi” catturati da scene di film. Lo potete trovare QUI].

Quando tale sguardo sfugge inconsapevolmente  è da considerarsi un grave errore tecnico, capace talvolta di distruggere in un attimo tutta l’atmosfera, il pathos, la suspense creata fino a quel momento. Lo spettatore infatti vede questo “sguardo” e lo traduce come un elemento intruso, uno sbaglio registico, un attimo di smarrimento dell’attore che guarda dove non dovrebbe (cioè verso di noi, semplici osservatori esterni di una storia narrata e non complici dei protagonisti del film).

Quando però tale sguardo rappresenta un preciso dettame stilistico del regista, allora la storia cambia. Alcuni autori lo utilizzano sporadicamente e quasi solo in chiave comica: ci si rivolge direttamente allo spettatore come per avere da lui una conferma, allo stessa maniera di un attore teatrale che si rivolge al pubblico in sala. E’ questo il caso di Woody Allen:

Altri autori, invece, utilizzano lo sguardo in camera come ultima inquadratura del film. Esempio significativo è il finale di Memories of Murder di Bong Joon-Ho. La “rivelazione” che la bambina fa all’ormai ex poliziotto lascia quest’ultimo fortemente turbato e guarda in camera quasi come a cercare in noi spettatori una consolazione o, meglio, una conferma dell’ineluttabilità del caso:

Pochi invece sono i registi in grado di portare all’estremo questo meccanismo e di trasformarlo in una cifra stilistica del loro intero lavoro. Uno di questi è sicuramente Jonathan Demme. L’apoteosi di questo metodo viene raggiunto con Il Silenzio degli innocenti, capolavoro thriller del 1991. In questo film gli sguardi in macchina rappresentano quasi la normalità e aumentano esponenzialmente un senso di partecipazione (e, parallelamente, di inquietudine) agli eventi narrati. Famosi sono gli intensi primi o primissimi piani di Anthony Hopkins e Jodie Foster nei loro molteplici incontri in carcere. Ma Demme utilizza lo stesso metodo anche per dialoghi apparentemente più normali. Ecco un esempio fra Scott Glenn e la stessa Foster, nella scena iniziale in cui alla Foster viene dato l’incarico di andare ad intervistare Hannibal Lecter. Qui gli sguardi sono a filo della macchina da presa, sfociando talvolta in sguardi diretti. E la scelta, apparentemente strana e bizzarra, funziona alla grande!

tecnica_Piano sequenza #1

Io sono uno di quelli che considerano la forma importante quasi quanto il contenuto. Non allo stesso livello, in quanto un film che racconta “visivamente male” una bella storia è comunque migliore di una narrazione noiosa e inconcludente realizzata con tutti i fronzoli del caso. La tecnica deve supportare la storia e aumentarne la forza che scaturisce dal concatenarsi degli eventi e dalla caratterizzazione dei personaggi.

Detto questo, non nascondo di amare molto i registi che sfoggiano (con cognizione di causa) le loro abilità con la macchina da presa.

Inizio questo primo appuntamento relativo alla tecnica cinematografica con un PIANO SEQUENZA (cioè una scena più o meno lunga ripresa senza stacchi di montaggio) molto efficace e decisamente impegnativo dal punto di vista realizzativo.

Parlo di Goodfellas (Quei bravi ragazzi), capolavoro gangster di Martin Scorsese. Qui Ray Liotta entra a pieno titolo a far parte della “famiglia” mafiosa e noi con lui. Come? Con un piano sequenza di quasi 3 minuti: dal dettaglio delle chiavi della macchina (in esterni) fino al piano americano (inquadratura dalla vita in su) del presentatore della serata di gala (in interni).

Le difficoltà di una scena come questa sono tante: l’illuminazione prima di tutto (lo sbalzo di luce fra fuori e dentro, anche se qui attenuato dal fatto che l’esterno è già buio), la bravura dell’operatore steady, tutti gli attori (e le comparse) che devono muoversi e interagire con un tempismo millimetrico (altrimenti salta tutto e si rifà), ecc…

Però, quando tutto funziona, l’effetto (che, ben inteso, per il pubblico “normale” DEVE passare inosservato) è una goduria per gli occhi. Non vi sembra?

 

Woody Allen docet

“Il sesso senza amore è un’esperienza vuota, ma tra le esperienze vuote è una delle migliori.”

“Ero solito portare una pallottola nel taschino, all’altezza del cuore. Un giorno un tizio mi tirò addosso una Bibbia, ma la pallottola mi salvò la vita.”

“I guai sono come i fogli di carta igienica: ne prendi uno, ne vengono dieci.”

“Non ho paura di morire. È solo che non vorrei essere li quando questo succede.”

Oggi sono più conosciuto, faccio cilecca con donne più belle.”

“Il mio primo film era così brutto, che in sette stati americani aveva sostituito la pena di morte.”

“Sono sempre ossessionato dal pensiero della morte: v’è una vita nell’aldilà? E se c’è, mi potranno cambiare un biglietto da cinquanta?”

“Non credo in una vita ultraterrena; comunque porto sempre con me la biancheria di ricambio.”

“Il mio dottore dice che facendo le scale a piedi si guadagnano minuti di vita. Rampa dopo rampa ho guadagnato due settimane, durante le quali pioverà sempre.”

“Il sesso è la cosa più divertente che ho fatto senza ridere.”

“Due settimane fa sono stato coinvolto in un buon esempio di contraccezione orale. Ho chiesto ad una ragazza di venire a letto con me e lei mi ha detto di no.”

“Il vantaggio di essere intelligente è che si può sempre fare l’imbecille, mentre il contrario è del tutto impossibile.”

“Sono contrario ai rapporti sessuali prima del matrimonio: fanno arrivare tardi alla cerimonia.”

“Recentemente ho letto la Bibbia. Non male, ma il personaggio principale è poco credibile.”

 

sul_remake di Amici Miei

Oggi esce nei cinema il remake di Amici Miei, per la “regia” di Neri Parenti. Chi ama il cinema, chi apprezza l’originale e non vuole profanarlo, chi considera Monicelli un Maestro (e chissà cosa direbbe, con le sue taglienti parole, di questa mera operazione commerciale), eviti di andare a vederlo.

Fortunatamente da alcuni giorni si è alzata una veemente protesta sul web (specie su facebook) atta a boicottare il film. Nonostante quindi gli incassi sempre cospicui che i cinepanettoni ogni anno riescono a racimolare, questa volta pare che anche gli aficionados si siano arresi all’evidenza.

D’altronde, i miti non si toccano.

 

MyFavMovies_gli Amorosi

E dopo i Thrillerosi… gli Amorosi!

Ok, lo ammetto. Non è propriamente il mio campo. Fin da ragazzo ho sempre apprezzato di più i thriller, i polizieschi, gli horror. Però con l’età che avanza ci si ammorbidisce (si cresce?) e si cominciano ad apprezzare film non necessariamente pregni di adrenalina, ma capaci di toccare altre corde. Ecco quindi che, pur consapevole di addentrarmi in un mondo che non conosco appieno e conscio del fatto di aver dimenticato chissà quanti altri capolavori, vi propino la mia Top 7 (rigorosamente in ordine casuale)… ovvero, i film amorosi che ho amato di più:

In the mood for love (Wong Kar-wai, 2000)
Lento, ipnotico, seducente. E’ uno dei capolavori del regista di Hong Kong, quello che lo ha consacrato definitivamente agli occhi del mondo. Due solitudini (Tony Leung e Maggie Cheung) che si incrociano, si guardano, si sfiorano. Un elegante messinscena composta di dettagli, di situazioni quotidiane ripetute, che innescano nello spettatore un meccanismo che inizialmente ti tiene lontano ma che poi si tramuta in totale complicità. Colonna sonora evocativa e ammaliante, come anche la fotografia (ad opera di Chris Doyle e Lee Ping Bin).

L’età dell’innocenza (Martin Scorsese, 1993)
Uno dei miei Scorsese preferiti nonché quello che avevo maggiormente snobbato negli anni. Poi l’ho visto e mi sono ricreduto. Un vero capolavoro di anima e tecnica, diretto magistralmente e interpretato da una coppia di attori meravigliosi e perfetti (Daniel Day-Lewis e Michelle Pfeiffer) che trasudano sensualità e tormento interiore. Un amore passionale che si scontra con le regole dell’etichetta e delle convenzioni sociali dell’epoca. Fotografia di Michael Ballhaus, montaggio di Thelma Schoonmaker, scenografie di Dante Ferretti, costumi di Gabriella Pescucci. C’è da aggiungere altro?

Love Letter (Iwai Shunji, 1995)
Watanabe Hiroko è una ragazza che sta ancora soffrendo per la morte del suo fidanzato avvenuta due anni prima. Mentre rovista fra le cose appartenute a lui, scopre il suo vecchio indirizzo e decide di scrivergli una lettera che chiama “lettera per il paradiso”. Quello che di certo non si aspetta è di ricevere una risposta… Giocando inizialmente su territori misteriosi ma poi focalizzando l’attenzione sui rapporti personali e sul binomio presente-passato, Iwai Shunji riesce nel difficile compito di emozionare raccontando una storia come tante, nella quale fanno capolino il destino, l’amicizia, il dolore, la gioia e l’amore. Sia quello vissuto sia quello solo sperato. Indimenticabile Nakayama Miho (interpreta le due protagoniste) e toccante la colonna sonora di Remedios. E un finale che ti lascia senza fiato.

Breve incontro (David Lean, 1945)
Capolavoro del cinema britannico, questa intensa e poetica storia d’amore fra una casalinga (Celia Johnson) e un medico (Trevor Howard) nasce per caso e cresce per mezzo di un susseguirsi di fugaci incontri e di parole appese a un filo. Inizialmente sottovalutato, è stato poi rivalutato con gli anni tanto da essere messo al 2° posto nell’elenco dei migliori cento film britannici di sempre (a cura del British Film Institute). Primo film di successo di David Lean e uno dei pochi ad avere un sapore minimalista (anche nella durata, solo 86 minuti) prima della cavalcata che lo porterà a sfornare alcuni dei migliori kolossal della storia del cinema: Lawrence d’Arabia, Il ponte sul fiume Kwai, il Dottor Zivago.

– Lettera da una sconosciuta (Max Ophuls, 1948)
Secondo film made in Usa del regista tedesco, Lettera da una sconosciuta narra la storia di una passione che non sarà mai ricambiata. La storia di una ragazza, Lisa (interpretata da Joan Fontaine) che trasforma la sua infatuazione per l’elegante ma donnaiolo pianista Stefan (Louis Jourdan) in una ossessione amorosa che consumerà la sua intera vita. Come giustamente viene fatto presente QUI, prendendo ad esempio una delle più belle sequenze del film, “…la sequenza di Lisa e Stefan seduti all’interno di un vagone del trenino del Prater mentre scorrono fondali di cartone, è da antologia e sembra alludere metaforicamente all’artificiosità ed illusorietà del loro stesso rapporto“. Un film sull’amore. Un amore però a senso unico. Un amore dal sapore adolescenziale che, incapace di evolversi, si protrarrà sostanzialmente intatto anche nella vita adulta con inevitabili conseguenze.

One Fine Spring Day (Hur Jin-Ho, 2001)
Un bel giorno d’estate, un ragazzo e una ragazza s’innamorano registrando il suono del vento fra gli alberi. Ma l’ebbrezza di tanta passione nel giro di pochi giorni sparisce, proprio come spazzata via da una folata di vento. Come può un amore scomparire così velocemente? E’ a questa domanda che il coreano Hur Jin-Ho (già regista del delicato e struggente Christmas in August) cerca di dare una risposta. E, incredibilmente, ci riesce. Regia attenta ed essenziale ((la storia è raccontata per mezzo di lenti movimenti di macchina, di piani fissi, della quasi totale mancanza di primi piani), colonna sonora incisiva ma mai invadente, finale  in piano-sequenza da brividi.

Due per la strada (Stanley Donen, 1967)
Scoperto quasi per caso, questo pazzo road-movie in salsa romantica di Stanley Donen (regista di musical, suo ad esempio il classico “Cantando sotto la pioggia”) è contemporaneamente una gioia per gli occhi (il montaggio è tipico degli anni’60, quasi sperimentale, sulla scia di altrepellicole uscite lo stesso anno come Il laureato o Senza un attimo di tregua), un salto indietro nel tempo e una riflessione anche amara di una vita passata insieme, fra ricordi, scherzi, abbandoni e riappacificazioni. E, nonostante tutto, una complicità che non perde mai smalto. Eccezionali sia Audrey Hepburn che Albert Finney. Musiche di Henry Mancini.

Milkyway’s Punished

Dal portale Asianworld leggo dell’imminente uscita dell’ultimo thriller-poliziesco “made in hong kong” prodotto da Johnnie To per la Milkyway Image.

Trattasi di PUNISHED, diretto da Law Wing-Cheong (già regista di alcune commedie amare come 2 Become 1 e Hooked on you) e interpretato da Anthony Wong, Richie Jen e Janice Man.


Quando sento notizie come questa mi carico di grandi aspettative. Forse immotivate, certo, però generate da anni di passione verso un certo cinema, un certo modo di intendere l’action, una certa innata capacità di unire l’azione al melodramma, la concitazione alla poesia, la furia violenta all’introspezione psicologica. Questo cinema ha generato negli anni opere che hanno fatto la storia: dai polizieschi di John Woo (A better tomorrow, The Killer, Hard Boiled) a quelli di Kirk Wong (Rock’roll Cop, Organized Crime & Triad Bureau, Crime Story), da quelli di Patrick Yau (Expect the Unexpected, The Longest Nite) a quelli di Johnnie To (The Mission, A hero never dies, PTU, Exiled). E solo per citare i più noti.

Con la depressione creativa di Hong Kong degli ultimi anni, bisogna quindi salutare con gioia & giubilo l’arrivo di un’opera che (almeno sulla carta) sembra funzionare egregiamente. Non fosse altro per il ruolo di protagonista assoluto dato ad Anthony Wong. Una delle facce più caratteristiche e versatili del cinema tout-court, capace di valorizzare un film anche solo con una comparsata.

In uscita nelle sale hongkonghesi dai primi di maggio (ma l’anteprima mondiale avverrà il 4 aprile, all’interno dell’ Hong Kong International Film Festival), Punished racconta l’epopea drammaticamente violenta di un potente ed arrogante uomo d’affari a cui un giorno viene rapita la figlia. Si ritroverà in un vortice molto più grande di lui e in balia degli eventi, in un’escalation sempre più tragica e disperata. Ad aiutarlo, la sua guardia del corpo (interpretata da Richie Jen).

Ecco il trailer: