In effetti, parlare di “visioni” è decisamente corretto quando si cerca di raccontare l’esperienza cinematografica uscita dalla mente di Terrence Malick.
L’ho visto circa una decina di giorni fa e ne parlo solo ora, dopo averlo metabolizzato un po’. Nel frattempo il film ha vinto Cannes. Trovo curioso che su The Tree of Life vi sia stata sostanzialmente una divisione netta (o quasi) fra i critici classici (quelli che scrivono sui giornali o che disquisiscono alla radio) e quelli moderni, che discutono online sui vari forum-portali-blog. I primi a lodare incondizionatamente l’ultima opera del maestro americano, i secondi a ridimensionarne la portata e a mettere in dubbio l’eccezionalità dell’evento.
Indovinate un po’ da che parte sto?
Tecnicamente Malick è un mostro. Al pari di Kubrick, tanto per capirci. Però a mio avviso la scelta stilistica che ha iniziato ad adoperare a partire dal capolavoro (quello sì) “La sottile linea rossa” non si adatta ad ogni situazione, ad ogni storia, ad ogni concetto, con la stessa efficacia. Me n’ero accorto già durante la visione di The New World. Per quanto straordinarie fossero le immagini della natura incontaminata (insieme a Peter Weir e John Boorman, Malick è probabilmente uno dei migliori registi capaci di ritrarre la natura nella sua vera essenza), l’utilizzo eccessivo della voce sussu(na)rrante e di musiche ancestrali a rischio new age, mi avevano lasciato l’amaro in bocca e non ero riuscito ad apprezzare quello che potenzialmente poteva trasformarsi in un gran film ma che alla fine era diventato un polpettone filosofico su Pocahontas.
The Tree of Life, purtroppo, continua su questa strada. E, a tutto questo, aggiunge un ulteriore pericolosissimo ingrediente: la presunzione. Nel senso che esagera, ambisce a raccontare l’irraccontabile, il microcosmo (la vita quotidiana di una famiglia negli anni ’50) in relazione con la nascita dell’universo (!). I ricordi, la memoria, la vita che scorre come un fiume, la nostalgia, la crescita, la vita. Ogni breve attimo di ogni brevissima vita su questo pianeta è riconducibile all’universo, alla natura che ci sovrasta e che ci guida verso il futuro.
Malick ci prova. E qualche volta ci riesce pure. Il film non è da bocciare in toto. Anzi. Ma spesso e volentieri diventa noioso, didascalico, ripetitivo. Come la vita, certo. Però questa similitudine non aiuta il film, tanto meno la sua fruibilità durante la visione.
Per uscire dall’universo ovattato di Malick avevo bisogno di immergermi in un sano b-movie d’autore che risolvesse in maniera spiccia i problemi del mondo. Ecco perché la mia scelta è caduta su Essi Vivono.
Carpenter è stato per molti anni uno dei miei registi preferiti e ancora oggi lo considero un grande. E non può essere altrimenti: chi altro avrebbe realizzato un film così “comunista”, così anarchico, così terribilmente premonitore. E, per giunta, nel pieno degli anni ’80. Attualissimo nelle tematiche, Essi vivono è invecchiato molto bene anche per quanto riguarda la regia. Il suo è uno stile classico, tradizionale (Carpenter predilige campi lunghi, piani sequenza per nulla vertiginosi, interpretazioni asettiche e libere da qualsiasi gigionismo), che funziona ancora oggi con la stessa potenza dell’epoca in cui è uscito.
A questo si aggiungono poi le tipiche musiche carpenteriane che fanno da filo conduttore emozionale per tutta la durata del film e degli effetti speciali a dir poco artigianali ma pienamente efficaci.
Un’opera non priva di numerose ingenuità ma che contemporaneamente diverte e fa riflettere. E io, chiamatemi scemo, fra il cinema “alto” dell’ultimo Malick e quello “basso” del Carpenter anni ’80, preferisco di gran lunga quest’ultimo: povero ma pieno di idee intelligenti e alla portata di (quasi) tutti.
“Ci sono due vie per affrontare la vita: la via della natura, e la via della grazia.” (tratto da “The Tree of Life”)
“Raccomandate l’anima al vostro creatore, sono venuto ad annientarvi. Anche perché ne ho le palle piene.” (tratto da “Essi vivono”)